Lieserl ha una storia ammaliante, dentro di sé. Era quella bambina che Einstein citò, varie volte, nelle lettere destinate alla moglie, quando - per problemi razziali - fu costretto a lasciarla. E questa bambina è avvolta nel mistero: chi è Lieserl, citava un articolo, che lessi tempo fa. Un nulla, una parola inserita in alcune righe, in citazioni casuali, forse mai pronunziate dallo stesso fisico: la primogenita di casa Einstein che porta con sé il dolore di un padre dinanzi ad una perdita o l'inizio di una delle tante leggende metropolitane. In realtà nessuno può dirlo con precisione, e ciò abbraccia questa piccola figura con un alone bianco ch'è difficile da definire, e che scombussola data la sua potenza, il suo anonimato.
Mi ha affascinato tanto quell'articolo, tant'è che ho fatto mio quell'accostamento di lettere che sembra così elegante e leggero al solo pronunziarlo.
In terza persona di me, non mi piace parlare. Non sono, per certo, Proust e le sue madeleines sono distanti anni luce dai ricordi sparsi che si accumulano in qualche parte non precisa della mia scatola cranica. Capita spesso, dico, più di qualche semplice e sporadica volta, che il mio subconscio mi propini nei sogni dei ricordi, vita vissuta, e di mescolarli creando confusione in una stanza buia, forse vuota, forse stracolma, ma troppo buia per saperlo e per distinguere il suo contenuto. Ed a volte contemplo una finestra, un piccolo quadratino in quelle pareti che permetta ad una anche fievole luce di entrare, solo per definire quest'ignoto che lo stesso vano rappresenta. Ma sono di più i giorni in cui mi beo di questa oscurità e ripudio l'idealizzazione di un qualcosa che possa farmi sconfiggere la stessa.
In questo momento sto ascoltando la colonna sonora de "Les Misérables" (in particolare l'ultima canzone) e mi ricorda dei giorni lontani, forse legati alla mia infanzia, ma le immagini non sono così vive e forse non sono neanche veri e propri ricordi questi, ma solo prodotto di immaginazione ed ingegno, con un misto di fantasia. Che ne pensate? Un po' come i limoni arancioni... Che poi non sono tanto sicura di volere dei limoni arancioni se non all'interno del cinematografo che è nella mia testa. Ieri ho visto "Nuovo Cinema Paradiso" e me ne sono innamorata, conoscevo la colonna sonora, ma non la pellicola e di Tornatore avevo solo avuto il piacere di vedere "La migliore offerta". Ho scoperto di avere un'ambizione che non immaginavo d'avere, ed è un qualcosa di recentemente pauroso. Mi attirano le storie, specialmente quelle belle, quelle che colpiscono qualche parte imprecisata dello sterno senza che si faccia rumore, in un sacro silenzio. E ne vorrei vedere di mie, in quel cinematografo, senza vantarne però la proprietà. Ecco che mi beo dell'immaginoso. Non possiamo prescindere l'una dall'altro, si nota? Non potrei rinunciarvici, perciò voglio quei limoni arancioni solo per me. Un giorno, con l'innovazione e la ricerca, che rimarrà alle nostre menti se la stessa fantasia viene portata via? Forse, a chi legge può sembrare assurdo tutto ciò, ma dopo mesi di silenzio è come se una molla fosse scattata in me. Ho preso sul serio l'iniziativa di usare la scrittura come terapia, aprendo uno pseudo-blog, ma molte volte fa assai male ciò che la mia mente e le mie mani producono perché scopro dimensioni del mio essere a me ignote, e mi spaventano per la loro vastità. Così come mi spaventano gli altri, ma in modo diverso.
Io sono affascinata da chi mi circonda, e mi aggrada il solo osservare chi mi attornia, le loro movenze ed i loro gesti. E' come se gelosamente attingessi a quei mondi e portassi via con me una parte degli stessi senza lasciare che questi se ne accorgano. Ho bisogno di quello spazio vitale, perché una claustrofobia innata mi assale. Ed è recente questa strana sensazione, assai recente quanto duratura. Lascio che gli altri mi osservino da lontano e conoscano solo ciò che io voglio che conoscano. Ho paura a lasciare spazi, e mi pento se lo faccio. Mi fa rabbia, un'innata rabbia, anch'essa da poco scoperta. Sono l'Indiana Jones dei viaggi nella mia mente, per assurdo.
Io sono su d'un pendolo al di sopra delle persone, ma questa superiorità non va intesa come superbia o presunzione. Semplicemente dall'alto vedo meglio gli ostacoli. Ci viaggio su quel pendolo, senza mai avvicinarmi al centro, perché non m'interessa raggiungerlo. La stabilità, in sé, mi annoia. E forse per questo che preferisco una teoria che s'avvicini ad un equilibrio instabile più che stabile. Nell'instabilità ci vedo il dinamismo, lo stesso che porta a correre ma a volte anche a fermarsi, per poi iniziare questa fuga da capo. Ma da cosa, poi, si fugge? Forse da quelle carote gialle. Non ci credo, pensandoci. Mi ricorda un po' "Jurassik Park", o "L'alba del pianeta delle scimmie". Un po' m'impaurisce anche questo: le carote gialle.
Sì, che pazzia.